Aristotele e la matematica greca
Aristotele introduce una fondamentale distinzione tra due tipi di infinito: l’infinito in potenza e quello in atto. L’infinito in potenza va inteso come un’infinità in divenire, cioè distribuita nel tempo, simile a un processo che non ha mai fine. L’infinito in atto, invece, è un’infinità data, che si presenta nella sua totalità in un momento ben definito. Ora, Aristotele respinge l’infinito attuale, sia a livello fisico, sia a livello matematico. si accetta l'infinito potenziale solo come processo di ecceterazione, cioè come possibilità di procedere sempre oltre, un passo alla volta, ottenendo ad ogni passo quantità sempre più grandi, ma comunque finite. Anche la matematica greca: Euclide, Pitagora, Archimede e tutti i grandi matematici di quel tempo rifiutarono ovviamente l'infinito attuale, ritenendo lecita solo la concezione dell'infinito come divenire. Il tema dell’infinito come grandezza geometrica fu affrontato per la prima volta dai seguaci di Pitagora, che, partiti da un’originaria concezione finitista degli enti geometrici, furono poi costretti ad ammettere l’esistenza dell’infinito sul piano matematico. L’idea che ogni ente geometrico sia costituito da una infinità di elementi ultimi emerse dalla scoperta della incommensurabilità fra il lato e la diagonale del quadrato.
Ci si avventura nell'infinito attuale 1638 Galilei
Secondo Galileo le linee, ma anche gli oggetti concreti che si trovano in natura sono formati da un continuo (infinito attuale) di parti piccole a piacere ma misurabili (e quindi a loro volta divisibili). «Ogni parte (se parte si può chiamare) dell’infinito è infinita; sì che se bene una linea di cento palmi è maggiore d’una di un palmo solo, non però i punti di quella sono più dei punti di questa, ma e questi e quelli sono infiniti». Le considerazioni di geometria lo portano così a cogliere che l’infinito può entrare in collisione con la VIII nozione comune di Euclide: «Il tutto è maggiore della parte». Basta disegnare un triangolo e vedere che tra il lato AB ed il segmento MN, che congiunge i punti medi degli altri due lati, deve esistere una corrispondenza biunivoca ottenuta congiungendo i punti di AB con C. Tutto ciò contro l’intuizione che porta a far credere che AB, dato che ha lunghezza doppia rispetto a MN, sia formato da un numero maggiore di punti. In ambito non geometrico: Galileo considera i numeri naturali 0, 1, 2, 3 ... ed osserva che l'insieme (infinito) dei loro quadrati 0, 1, 4, 9, ... è certamente più piccolo e, pur tuttavia, contiene tanti elementi quanti erano i numeri di partenza, perché ad ogni numero corrisponde in modo biunivoco il suo quadrato. Al di là di questa conclusione, le riflessioni di Galileo contengono, magari solo in germe, suggerimenti stimolanti su come potremmo pretendere di misurare l'infinito. In effetti, non possiamo contare né i numeri naturali, né i loro quadrati (infiniti sono gli uni, infiniti sono gli altri); pur tuttavia, possiamo confrontarli e stabilire rigorosamente che gli uni sono tanti quanti gli altri, perché c'è una corrispondenza biunivoca tra i loro insiemi. Con il paradosso di Galileo si dà vita all’idea che all’infinito possiamo, se non contare, confrontare e decidere se due insiemi sono o meno ugualmente numerosi.